“Il nome stesso della regione evoca qualcosa di opulento. Se Parigi è la mente della Francia, e la Champagne l’anima, la Borgogna ne è lo stomaco”.
L’affermazione, ospitata sulle pagine dell’Atlante mondiale dei vini, -prestigiosa pubblicazione firmata da Hugh Johnson e Jancis Robinson, critici enologici di fama planetaria- non ci appare destituita di fondamento, specialmente considerando le innumerevoli ghiottonerie gastronomiche che la regione custodisce: da pietanze come le Cuisses de Grenouille (le Coscette di rana, così popolari che la Francia, per soddisfare il fabbisogno interno, delle circa 4mila tonnellate all’anno consumate ne importa 2.800 tonnellate), o il Boeuf bourguignon (piatto di culto a base di carne di manzo cotta nel vino), dal Coq au vin (monumento della tradizione culinaria borgognona, il pollo viene lungamente marinato nel vino rosso in compagnia di aromi, spezie, carote e funghi), alle Escargots alla bourguignonne (lumache preparate con una tipica ricetta del territorio).
Possiamo continuare l’elenco con preparazioni a base di insaccati, come l’Andouillette du Morvan, o quella di Chablis, la Fondue bourguignonne e lo Jambon à la Chablisienne, finendo, non per scarsità di argomenti gastronomici, ma per amore della brevità della narrazione, con il celebre Poulet de Bresse. Quello preparato da Jean Paul Bocuse, amabilmente accompagnato aux morilles (spugnole), è ormai parte integrante del mito che avvolge questo imprescindibile riferimento della cultura gastronomica transalpina, unico Chef ad essere riuscito nell’impresa di mantenere le 3 stelle della guida Michelin per 50 anni consecutivi.
Ma tornando ad argomenti vinosi, ricordiamo che la Borgogna, lunga 250 chilometri, è suddivisa in 5 distinte aree produttive diversissime tra loro per condizioni pedoclimatiche, consuetudini enologiche e vitigni utilizzati, e che se Bordeaux è terra di blend, in Borgogna dominano i monovarietali con oltre l’80% della superficie vitata ripartita tra lo Chardonnay e il Pinot Noir.
Partendo geograficamente da nord, dagli oltre 5000 ettari di vigneto del celebrato Chablis si passa per la mitica Côte d’Or (una stretta fascia di territorio lunga 52 chilometri divisa in Côte de Nuits, culla dei migliori Pinot Noir del mondo, e Côte de Beaune, dove è protagonista lo Chardonnay, ma il Pinot Noir non è certo una comparsa), si arriva nella Côte Chalonnayse e, proseguendo verso sud, si raggiunge il Mâconnais, culla del sorridente Pouilly-Fuissè, e si completa il percorso nel Beaujolais.
Tanta abbondanza, difficilmente riassumibile nello spazio di un articolo, e l’atavica passione per quell’icona di eleganza e di eloquenza gusto-olfattiva che risponde al nome di Pinot Noir, ci ha spinto a circoscrivere il racconto a questo vitigno e alla sua patria d’elezione: la Côte d’Or.
Rassicuriamo coloro che avanzeranno delle, peraltro legittime, obiezioni legate alla presenza nello stesso territorio dei più grandi Chardonnay del pianeta, informandoli che l’argomento ci lascia tutt’altro che indifferenti, e che intendiamo riprenderlo e svilupparlo, in modo dettagliato e ampio, in futuro. Riassumere stringatamente la personalità di questo magnifico protagonista della viticoltura francese rischierebbe di banalizzarlo.
Tanto più che in Borgogna, dove è interpretato assecondando stilemi discordanti, muta forme, potenzialità evolutive e contenuti organolettici a seconda del terroir di appartenenza, -come certificano i voluttuosi e burrosi Chardonnay della Côte d’Or, i fruttati e minerali Pouilly-Fuissè del Maconnais e gli irrequieti e taglienti Chablis– sono simbolo di una zona che, seppur afflitta da diversi anni da un’omogeneizzazione, purtroppo indirizzata verso il basso del livello qualitativo dei suoi vini e in particolar modo dei “base”, continua a rappresentare, grazie alle sue espressioni più qualificate nei Grands Crus e Premiers Crus, un irrinunciabile paradigma dello Chardonnay per i vigneron dell’intero globo terracqueo.
Facendo un passo indietro, ricordiamo che la graduatoria dei vigneti della Côte d’Or, protagonista principale della narrazione seppur riveduta ed emendata dalle originarie approssimazioni, è figlia dei primi tentativi sviluppati attorno alla metà dell’800 da Jules Lavalle e codificati nel 1861 attraverso la classificazione delle vigne realizzata dal Comité de l’Agriculture de Beaune.
La gerarchia dei vigneti contempla la presenza di quattro classi, o Denominazioni:
–Appellations Régionales, quella dei generici Bourgogne, denominazione che da sola raccoglie più della metà dei vini prodotti nella regione,
-Appellations Villages (o Communales), copre circa un terzo del vino prodotto nel comparto.
-Premiers Crus, con il 10% del totale.
–Grands Crus de Bourgogne, che valgono l’1,5% della produzione complessiva, l’apice qualitativo.
Non soltanto perché condizionati dalla tirannia del portafogli: sono sempre più inavvicinabili i Grands Crus, i cui prezzi, contagiando di riflesso anche la fascia dei Premiers Crus, hanno conosciuto nell’ultimo decennio una crescita esponenziale, abbiamo deciso di rivolgere le nostre attenzioni al millesimo 2020 dell’Appellation Village, denominazione in grado di fotografare il terroir e di dispensare delle piacevolissime sorprese che, chiamando nuovamente in causa Hugh Johnson: “in ben più di un caso, enumera vini che godono di spessori qualitativi analoghi a quelli dei Premier Crus”. Ringraziamo il simpatico Hugh per l’assist e spendiamo due parole sull’annata e sulla storia vitivinicola dei luoghi.
L’annata 2020 nella Côte d’Or
Un millesimo climaticamente complicato che è passato da un dicembre piovoso a un febbraio con temperature massime di gran lunga superiori alle medie del periodo, da un fine inverno gelido, seguito da un aprile tutt’altro che caldo, ad un giugno capriccioso, che ha intervallato perturbazioni atlantiche a giornate di sole pieno, a un luglio torrido, dove si sono sfiorati i 40°C-cosa che non accadeva più dai primi anni ’20 del secolo scorso- che ha provocato stress idrici, rallentamenti della maturità fenolica e vendemmie anticipate. Agosto, in ossequio alla legge di Murphy, ci ha poi messo del suo, mostrando temperature elevate e percuotendo costantemente, con la prepotenza dei suoi raggi solari i filari dei vigneti. Quello del riscaldamento globale, e del conseguente aumento delle temperature, con tutto l’infausto corredo di fenomeni atmosferici violenti quali grandinate, trombe d’aria, precipitazioni feroci ed improvvise, alluvioni e grandine, preoccupa non poco i vigneron borgognoni, occupando le prime pagine dei giornali locali e spingendo le associazioni dei viticoltori a caldeggiare dibattiti e ricerche, finalizzate a trovare la soluzione ad un fenomeno, che ha ormai acquisito drammatici caratteri di continuità.
Borgogna: racconto (sintetico) di una vitivinicoltura da favola.
Con poco meno di 30.000 ettari di vigne, il vigneto Borgogna, nonostante la sua non risibile estensione, e una produzione annua di 1.500.000 ettolitri di vino, copre appena il 3% della superficie vitata del paese transalpino.
Le sue gloriose vicende enoiche iniziarono con i Galli, che attorno al V secolo a.C., tornando in Francia con delle piante di vite, bottino prelevato nella penisola italica che avevano invaso, le misero a dimora sul territorio.
Pagine fondamentali dell’affascinante romanzo enologico della Borgogna sono state redatte dai monaci benedettini e cistercensi, a cui va ascritto il merito di aver divulgato i saperi enologici e di aver attribuito al terroir il ruolo di perno della cultura vitivinicola dei luoghi. Sono stati loro ad introdurre l’usanza di perimetrare con muretti in pietra le vigne, dando vita agli ormai leggendari Clos che già prefiguravano, in embrione, una classificazione qualitativa dei vigneti stessi. È grazie all’opera delle Abbazie di Cluny, Vergy, Citeaux, St. Vivant, che metodi agricoli e tecniche di cantina si diffondono nella regione.
La più antica tra queste Abbazie, fondata nel 909 e titolare di una chiesa lunga 187 metri e alta 30, –che dopo tre ricostruzioni divenne, nell’anno 1095, il più grande fabbricato religioso della cristianità, primato mantenuto fino al XVI secolo, quando fu edificata la Basilica di San Pietro– l’Abbazia di Cluny, oltre ad assolvere un ruolo primario nello sviluppo dell’enologia francese, divenne un vincolante centro propulsivo della cultura vinicola per larga parte dell’occidente.
Nel Medioevo la sua autorità era indiscussa: detentrice di possedimenti agrari in diversi comuni della Côte d’Or, l’affiliazione di diocesi lontane le permise di estendere le sue proprietà nella Loira, nella Champagne, in Provenza e persino nella penisola iberica, e di esercitare la propria autorità su più di mille monasteri in tutta Europa.
Ben lungi dall’assumere comportamenti improntati alla sedentarietà, l’altra metà del clero fornì un contributo tutt’altro che marginale alla divulgazione della cultura vitivinicola: le monache dell’Abbazia di Tart si stabilirono a Morey, dove nascerà il Clos de Tart , quelle del Priorato di Saint Vivant de Vergy erediteranno e coltiveranno vigneti già all’epoca propensi a produrre uve di eccelsa qualità: uno di questi risponde oggi al nome prestigioso di Romanée-Saint Vivant, mentre le monache di Pontigny nel XII secolo allevavano la vite nei dintorni di Chablis. L’argomento, inspiegabilmente ignorato dalle numerose pubblicazioni sulla storia del vino borgognone (è quasi impossibile reperire informazioni a riguardo, anche sul web) è lodevolmente trattato nel paragrafo: “Il vino delle Abbazie”, nel capitolo dedicato alla storia del vino dell’esaustiva e chiara Vini e terre di Borgogna, opera pregevole a firma Camillo Favaro e Giampaolo Gravina. Molto più d’una comune guida (anche se sono ben 800 i vini degustati), il testo accorda identiche attenzioni ai piccoli vigneron e ai Domaines più blasonati, fotografando e rendendo leggibili: storia, caratteri pedoclimatici, caratteristiche dei suoli e delle annate e abitudini enologiche dei luoghi.
Tornando ai Clos, va attribuito all’ordine monastico dei Cistercensi dell’Abbazia di Citeaux l’edificazione del muro in pietra che circonda il celebre Clos de Vougeot, tappa irrinunciabile per tutti gli amanti del vino. Un unicum nel panorama enologico transalpino che ospita un castello ed un vigneto di circa 50 ettari (è il climat più vasto della Côte d’Or), classificato Grand Cru e condiviso da un’ottantina di produttori (erano circa la metà negli anni ’20 del “secolo breve”).
Sebbene la costruzione delle sue mura risalga verosimilmente, al XIII secolo, quando apparteneva all’Abbazia di Citeaux, il nome di Vougeot appare diversi decenni prima in un documento risalente al 1167.
È utile chiarire che neanche nella rifulgente Borgogna vinicola è sempre oro tutto quel che luccica, e che neppure l’iconico “Vougeot” può sottrarsi alle considerazioni che riguardano le vigne suddivise tra più proprietari, incluse quelle classificate Grands Crus. Il vigneto, sostengono i francesi, cambia passo dopo passo, e la difformità dei suoli e le differenze di altitudini e di giaciture, ancor più delle tecniche di cantina, conferiscono ai vini fisionomie organolettiche sensibilmente dissonanti. Nel caso di Vougeot, i filari collocati nella parte più alta del Clos accordano ai contenitori di fermentazione grappoli che si traducono, il più delle volte, in vettori di seducenti emozioni; al contrario, quelli vendemmiati più in basso, non sempre riescono a comunicare la grandezza e la personalità che tutti noi ci aspettiamo da un Grand Cru. Fregiandosi però tutti quanti della prestigiosa qualifica, i vini non considerano in alcun modo la diversa consistenza del loro spessore qualitativo, e i prezzi, pur essendo di sovente molto impegnativi, non sempre trovano un giusto corrispettivo nella qualità.
Con Carlo Magno la Côte d’Or conoscerà un prolungato periodo di splendore, che accrebbe ulteriormente con l’arrivo, nel 1309, di Clemente V e della sua corte in quel di Avignone, periodo che coincise con un sensibile incremento del consumo dei vini borgognoni, che l’apprezzamento espresso dai duchi di Borgogna, che amavano definirsi “signori dei migliori vini della cristianità” contribuì ulteriormente ad aumentare, estendendo la loro fama e la loro presenza sulle tavole dell’intera Francia.
Con gli ordini monastici connessi attraverso i secoli, e senza soluzione di continuità, con le attività vitivinicole della regione, bisognerà attendere la fine del ‘700, e l’affermazione della Rivoluzione Francese per assistere all’espropriazione delle proprietà terriere del clero, e alla consequenziale fine della sovranità vitivinicola delle congregazioni religiose. La frammentazione del vigneto borgognone, testimoniata dai circa 8 ettari di superficie vitata di cui in media sono titolari i vigneron, nulla di paragonabile all’estensione di cui godono gli Chateaux bordolesi, è in gran parte figlia di quelle confische e delle vendite all’asta dei vigneti.
Confidando nella Vostra benevola comprensione, e non potendo dilatare ulteriormente il racconto, salteremo giusto “un paio di secoli di storia”, nei quali sono accaduti eventi che, dal flagello della fillossera alle devastanti conseguenze provocate dai due conflitti mondiali, richiederebbero ben più di un articolo per essere raccontati. Cediamo quindi, senza riluttanza, la parola ai vini. Buona Borgogna e Buoni Villages a tutti!
Cronaca della degustazione dei Villages 2020
Villages della Côte de Nuits.
Fixin
Pochi metri separano Fixin dal celebre villaggio di Gevrey Chambertin. Fixin, un tempo residenza estiva dei Duchi di Borgogna, accorda il proprio nome ad una Appellation istituita nel 1936, e condivide i suoi cento ettari di superficie vitata (95 popolati dal Pinot Noir e poco meno di 6 dallo Chardonnay) con il comune di Brochon. I vigneti, che insistono su suoli sabbiosi e calcarei, sono distribuiti ad altitudini che variano tra 270 e 360 metri, con quelli classificati Premiers Crus (ce ne sono 6) che occupano la fascia alta, lasciando ai Villages quella compresa tra 270 e 300 metri. I vini di Fixin godono solitamente di un’apprezzabile potenziale evolutivo, agevolato da impalcature acide proporzionate e da tannini piuttosto energici.
FIXIN Crais de Chene – Chateau de Marsannay 2020
Tinge le pareti del calice con sinuose e intense pennellate color rubino, esibendo un incantevole ventaglio odoroso, che avvicenda luminosi riconoscimenti di alloro, rosa ed eucalipto con note di china, grafite, tabacco e sottobosco, adagiate su un tappeto di spezie dolci e frutti di bosco. L’ingresso al palato, autorevole e perentorio, mette in mostra: volume, dinamismo, un vibrante, benché felpato, ordito tannico e un’encomiabile profondità. Coerente con l’olfatto, di cui mantiene appieno le impegnative promesse, Il sorso, bilanciato dalla rinfrescante e proporzionata spina acida, abbandona la verticalità che anima il centro bocca, virando risolutamente verso la morbidezza, e pervenendo ad un finale, succoso e trascinante, di interminabile persistenza. Un’espressione voluttuosa e coinvolgente del Pinot Noir.
SANTENAY. Si è ormai attestata attorno all’80% del totale la produzione di vini rossi nel comparto vitivinicolo di Santenay. Nonostante la presenza di 140 ettari di suolo catalogato Premier-Cru, e quella di tanti vini che esibiscono, anche in età giovanile, uno stratificato affresco gusto-aromatico, che non nega diritto di cittadinanza alla complessità e alla longevità, i vini del luogo sono scarsamente rischiarati dai riflettori mediatici e godono di una sottaciuta notorietà.
Santenay 2020 Joseph Drouhin. 13,5°
Esibizione virtuosa di memorie enologiche antiche, trascritte con l’inchiostro dell’eleganza, e inserite in un quadro di non artefatta modernità, il vino mostra una veste insolitamente scura, e un impianto odoroso, dettagliato ed ampio, che promuove il dialogo tra luminose note primaverili e più ombrose suggestioni autunnali, includendo tra le policrome tessere del mosaico olfattivo: toni fruttati, di marasca e piccoli frutti di bosco, intrecciati con riconoscimenti di spezie dolci, buccia d’arancia, petali di rosa, muschio e sfumature balsamiche. Coerente con il naso, la bocca manifesta un paradigmatico equilibrio, con la nota alcolica contrastata da un vivificante palco acido e da una levigata intelaiatura tannica, che, scandendo il ritmo del sorso, lo accompagna verso un finale durevole, che riespone nitidamente i temi indicati dal naso.
I Villages della Côte de Beaune
Auxey-Duresses :
Antica dipendenza dell’abbazia di Cluny, il villaggio di Auxey-Duresses si confrontava con le pratiche vitivinicole fin dai tempi dei Galli. La denominazione Auxey-Duresses si sviluppa su 140 ettari di vigneto: circa 92 riservati al Pinot Noir e poco più di 49 alle uve a bacca bianca. Gran parte dei vini prodotti in loco aderiscono alla categoria dei Villages, mentre 9 climats rientrano nella classificazione Premier Cru. L’esposizione a nord di buona parte dei vigneti, unita alle correnti d’aria provenienti dalle Hautes Côtes, causa, fino a qualche anno fa di ritardi nella maturazione delle uve, sta trasformando la zona in un luogo previlegiato per la coltura della vite, soprattutto tenendo conto delle annate torride che sempre più spesso mettono alla prova i vignaioli borgognoni.
Auxey-Duresses 2020 André Goichot
Ci ha sorpreso in positivo questo vino (uno tra i Borgogna della Côte de Beaune con il miglior rapporto tra qualità e prezzo), avvolto da una luminosa veste color rubino contornata da un unghia dipinta di granato, sia per l’immediatezza e la perentorietà con cui conquista l’olfatto, che per il fascino che lo stesso emana, sfoggiando un palcoscenico odoroso gremito da un qualificato gruppo di attori: piccoli frutti rossi, spezie dolci e ricordi di sottobosco, fusi con un’aggraziata florealità, introduzione ad un assaggio, armonioso ed energico, contrassegnato da un carezzevole, ma tutt’altro che arrendevole, tessuto tannico. Chiusura persistente e sapida, rallegrata dal nitido ritorno delle percezioni olfattive. Non un archetipo di complessità, ma un vino estroverso e fedele al varietale, che fotografa il terroir, dispensando sorsi di sconfinata piacevolezza.
LADOIX 2020 Il villaggio, ubicato a poco più di 7 Km da Beaune, deve il suo nome al comune di Ladoix-Serrigny, e copre 90 ettari di superficie vitata: 24 di questi sono Premier Cru.
Château de Mersault
Trasuda storia da tutti i muri, lo Château de Mersault, suggestiva costruzione della Côte de Beaune inscritta nel cuore della denominazione Mersault, vincolante riferimento planetario per gli amanti dello Chardonnay. Lo Château, che vanta un passato millenario, è titolare di 65 ettari di vigneto, distribuito su oltre 100 appezzamenti, che comprendono 5 Grands Crus, 18 Premiers Crus e una dozzina di Villages. Se passate da queste parti, non lasciatevi sfuggire una visita (previa prenotazione) delle suggestive cantine, scavate nel XII secolo dai cistercensi, che si estendono per 3500 mq. sotto al castello.
LADOIX LES CHAILLOTS Château de Meursault
Colpisce, mostrando panni rubino insolitamente scuri, screziati da nuance violacee (eredità, verosimilmente, di un estate torrida), ed emanando un senso di compiuta grandezza, che raramente si riscontra tra i vini “giovani” della sua Appellation. Un monumento di ampiezza, eleganza e complessità, avvolto nei panni di una contemporaneità che non rinnega né esecra le virtù della tradizione. L’impianto olfattivo, espressivo e terso, distende un raffinato tappeto fruttato, che spazia dai mirtilli alle more, fino alla prugna, ma già dall’esordio il naso seduce, svelando una corolla aromatica che avvicenda spezie, sottobosco e rigogliosi soffi di rosa e di violetta. L’ingresso al palato, autorevole e perentorio, mette in mostra una seducente carnosità. Volume, profondità, slancio, equilibrio, e una solidità gustativa che ricorda alcuni Pommard, sono il risultato del dialogo tra il carezzevole tessuto tannico, l’affusolato palco acido e un tenore alcolico che, ancorché elevato (14,5°), non manifesta la benché minima esuberanza.
Non solo Côte d’Or: La Côte Chalonnaise
Un simpatico intruso: RULLY
E’ uno dei primi villaggi che si incontrano lasciando la Côte d’Or, dirigendosi verso sud. Siamo nella Côte Chalonnaise, in un territorio conosciuto più per i vini bianchi (che attualmente coprono i due terzi della produzione) che per i rossi. L’Appellation Rully, seppur dominata dallo Chardonnay, sta guadagnando con il Pinot Noir sempre maggiori attenzioni, e un crescente consenso da parte dei consumatori, grazie alla nutrita presenza di vini che rifuggono dalla mediocrità, esibendo un’originale e articolata espressività.
Attiva nel commercio dei vini da oltre duecento anni la Maison Louis Latour, proprietà dell’omonima famiglia dal 1797 e storica griffe del comparto enologico borgognone, possiede oltre cinquanta ettari distribuiti tra alcuni dei migliori Premier e Grand Cru della Borgogna.
RULLY 2020 Louis Latour 13.5°
Malmostoso e inizialmente restio ad esprimersi, mostra, dopo una non brevissima permanenza nel calice, un naso articolato, ma caliginoso e avaro di frutto, orientato su note di grafite, china e polvere di caffè, fuse con sentori ematici, cardamomo, liquerizia e sottobosco. Dissonante con il naso, alla ricerca di un equilibrio che al momento appare precario, lo sviluppo gustativo esibisce ineccepibili proporzioni e una seducente fluidità, alternando caratteri di morbidezza ad una palpitante acidità, che ottunde le percezioni verticali sciogliendosi nel voluttuoso e caldo abbraccio della nota alcolica. Finale di apprezzabile intensità. Un Pinot Noir che, seppur ancora impreciso all’olfatto, esibisce un’apprezzabile struttura gustativa. Concedergli un più prolungato rapporto con la bottiglia contribuirebbe probabilmente a rendere qualitativamente più omogenee le due fasi.
Pochi buoni consigli per un piacevole soggiorno nella Côte d’Or
Seppur molto attraente, con la sua ordinata successione di graziosi villaggi, la Côte d’Or non offre al visitatore un inesauribile patrimonio artistico, paesaggistico e architettonico, e il suo “capoluogo” vitivinicolo, l’incantevole Beaune, ex capitale del Ducato di Borgogna, attraente scrigno di edifici medioevali, ha dimensioni tali che, compresa l’imperdibile visita all’Hotel Dieu, per visitarla è sufficiente una giornata. Il discorso cambia, e non di poco, nel caso in cui il turista sia un convinto seguace di Bacco e voglia recarsi presso più aziende vitivinicole (a meno che le visite non siano finalizzate al solo acquisto dei vini, ma ambiscano includere assaggi e visite di vigneti e cantine, il consiglio è quello di telefonare con congruo anticipo, per prendere un appuntamento). Quest’ultima ipotesi richiederà un soggiorno di almeno quattro giorni, che vi permetterà, senza trascurare i monumenti e i luoghi simbolo della zona (compreso il rituale pellegrinaggio a Clôs de Vogeout o al Domaine Romanée-Conti), di esplorare diversi borghi della Côte d’Or.
Pernottare a Beaune o nei dintorni, vuol dire trovarsi praticamente al centro della Côte d’Or, e questo vi consentirà di raggiungere in breve tempo sia le località della Côte de Beaune che quelle della Côte de Nuit. Gli alberghi, soprattutto nel periodo estivo, non costano pochissimo, e mangiare a Beaune comporta il transito di vie e piazze colonizzate da locali turistici, e la condivisione di spazi ridotti con una vociante umanità. Se aderite alla categoria di coloro che poco amano la “caciara” e i “supermarket della nutrizione”, potrete concedervi una rilassante e appagante sosta gastronomica da: L’Agastache (1, rue de la Cave) ubicato in un angolo tranquillo del tranquillissimo villaggio di Volnay. La cucina, creativa ma priva di inutili orpelli, annovera piatti di territorio moderatamente rivisitati, e saltuari, quanto riuscitissimi incontri tra prodotti stagionali dell’orto e prelibatezze d’oltreconfine, che tradiscono le origini italiche dei titolari. Il menu degustazione, un appetizer seguito da cinque portate (non allarmatevi, le porzioni non sono da raduno degli alpini), abbinabile a vini scelti all’interno di una carta che, seppur non enciclopedica, riepiloga nitidamente i temi enologici della Côte de Beaune, costa 49 euro, e la spesa può essere incrementata di poco, indirizzandosi sull’offerta di vino al calice. Petto d’anatra in salsa di cassis e altri cavalli di battaglia del ristorante non sempre sono fruibili, e i posti disponibili nell’aggraziato dehor esterno sono appena una ventina. Vi converrà telefonare, sia per prenotare che per soddisfare eventuali curiosità legate al menu, e stiano tranquilli coloro che nutrono fondati dubbi sulla dignità del loro francese: la dinamica Caroline Carlevato e l’estroso chef Nunzio Iacono non hanno dimenticato le proprie radici gastronomiche, e neanche l’italiano.
Quanto al pernottamento, una residenza che nobilita il concetto di ospitalità è quella dell’hotel Belle Epoque (15 rue du Faubourg Bretonnière 21200) ubicato a 200 metri dal centro di Beaune e dotato di un comodo e ampio parcheggio interno. Il personale è gentilissimo, le stanze pulite e decisamente molto ampie, e il luogo emana un fascino che, come suggerisce il nome, pur avendo un sapore soavemente retrò, è totalmente immune da accenni fané. Il costo della stanza doppia si aggira attorno ai 130 euro, ed è possibile prenotarla tramite il loro sito, o attraverso quello di Logis.
Il tema della Borgogna vitivinicola è stato esplorato e raccontato in lungo ed in largo, occupando milioni di pagine di pubblicazioni, riviste e guide del settore. Consapevole di aver aggiunto si e no una sbiadita pennellata, al suo appassionante e inesauribile ritratto, sarei nondimeno felice se il tentativo di tracciare alcuni dei suoi caratteri fosse riuscito a stimolare la curiosità dei lettori, aprendo un’altra finestrella su un territorio che ogni seguace di Dioniso dovrebbe visitare almeno una volta nella vita, giacché, citando un celebre filosofo tedesco: “si conosce un paese solo quando si è mangiato il suo pane e bevuto il suo vino”, e la Côte d’Or, è bene non dimenticarlo, è il luogo dove nascono alcuni dei più grandi vini del mondo…. E non si mangia neppure malissimo! Buona Borgogna e buonissimi Villages a tutti voi.
Fabrizio Russo
Ringraziamenti: Un grazie di cuore a Giampaolo Gravina per avermi dedicato tanto del suo tempo, e avermi munificamente elargito: consigli preziosi e pillole di saggezza borgognona, e infiniti ringraziamenti agli amici: Annalida Episcopo, Barbara Corte, Eliana Manca, Luca Rivalta e Lorenzo Di Giulio, che affetti dalla mia stessa patologica passione per i temi enoici, hanno condiviso con me calici di vino e momenti conviviali, arricchendo la degustazione dei Villages con la loro travolgente simpatia, e con utilissime e sagaci considerazioni.
Critico enogastronomico, ha collaborato a numerose guide e riviste di settore italiane e internazionali. Da oltre 20 anni scrive per “La Repubblica”, prima in cronaca di Roma, poi come collaboratore delle guide “Ai saperi e ai piaceri regionali”. Attualmente è coordinatore regionale di Umbria, Abruzzo e Puglia per la guida ViniBuoni d’Italia, e presidente dell’associazione Athenaeum.